LA MALATTIA COME CRIMINE

Samuel Butler . 1872
arteideologia raccolta supplementi
made n.19 Giugno 2020
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
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EREWHON . Oltre i limiti . Capitolo X .

Ecco quello che venni a sapere.
In Erewhon, se qualcuno si ammala o è indisposto o invecchia precocemente prima dei settant’anni, viene citato a giudizio dinanzi a una giuria di suoi concittadini, e, se riconosciuto colpevole, è additato al pubblico disprezzo e condannato più o meno severamente a seconda del caso.
Le malattie si dividono in trasgressioni minori e in crimini veri e propri, come i reati da noi; una malattia grave viene punita duramente, mentre chi ha un difetto di vista o di udito, purché abbia compiuto i sessantacinque anni e sia sempre stato sano come un pesce, è passibile solo di una multa o, se non la paga, della prigione.
Chi invece falsifica un assegno, dà fuoco alla casa, ruba o commette una qualsiasi altra azione da noi ritenuta criminale, viene portato all’ospedale e assistito con ogni cura a spese dello Stato; oppure, se ha soldi, avverte gli amici che è stato còlto da un grave attacco di immoralità, proprio come facciamo noi quando ci ammaliamo; e gli amici accorrono a trovarlo premurosissimi, e gli chiedono con interesse come gli sia accaduto, quali siano stati i primi sintomi, e via di seguito, domande a cui lui risponde a cuore aperto: per gli Erewhoniani, infatti, una cattiva azione, benché sia da deplorare (come per noi è da deplorare una malattia) in quanto rivela indubbiamente una deviazione grave in chi la compie, è, tuttavia, solo il risultato di una disgrazia prenatale o postnatale.
Lo strano è, però, che mentre giustificano i difetti mentali attribuendone la colpa a un carattere o a un ambiente sfortunati, essi non vogliono sentir parlare di sfortuna in quei casi che in Inghilterra suscitano solo compassione e solidarietà umana.
La cattiva sorte, di qualsiasi genere, persino l’essere vittima di un’ingiustizia, è considerata una colpa contro la società perché sentirne parlare mette la gente a disagio. La perdita del patrimonio o la scomparsa di un amico carissimo che ci fu di grande aiuto, vengono così puniti quasi con uguale severità della malattia.
A dire il vero, per quanto estranee alla nostra mentalità possano apparire tali idee, tracce di opinioni analoghe si possono rilevare persino nell’Inghilterra del diciannovesimo secolo. Se qualcuno ha un ascesso, il medico dice che questo è «peccant»; e diciamo che abbiamo «bad» a un dito o a una gamba, o che ci sentiamo «bad» dappertutto, quando dovremmo dire semplicemente che non stiamo bene.
Credenze di tipo erewhoniano si osservano anche più chiaramente in altri paesi. I Maomettani, ad esempio, ancor oggi, quando devono incarcerare le loro donne le rinchiudono nell’ospedale. E i Maori della Nuova Zelanda puniscono le sventure entrando con la forza in casa del colpevole e fracassando e bruciando tutti i suoi averi.
Gli Italiani, poi, adoperano lo stesso termine per «delitto» e per «sventura». Sentii una volta una signora italiana parlare di un suo giovane amico che, stando alle sue descrizioni, pareva dotato di ogni virtù possibile e immaginabile. «Ma,» esclamò «povero disgraziato, ha ammazzato suo zio».
Riferii a un amico questa frase, che avevo udito durante un viaggio in Italia fatto da ragazzo con mio padre, ma egli non parve affatto sorpreso. Mi raccontò anzi che per un paio di anni, in una città italiana, aveva usato noleggiare sempre la carrozza di un cocchiere siciliano, un bel giovane che conquistava subito per i suoi modi simpatici. Un giorno, però, costui era scomparso. Il mio amico chiese sue notìzie e apprese che si trovava in carcere perché aveva sparato al padre tentando di ucciderlo. Fortunatamente, la cosa non aveva avuto serie conseguenze. Di lì a qualche anno il simpatico giovanotto riapparve, e lo abbordò tutto espansivo.
«Ah, caro signore» gli disse «sono cinque anni che non la vedo: tre anni di militare e due anni di disgrazia», eccetera. I due anni di disgrazia erano quelli che il povero ragazzo aveva passato in carcere. Non mostrava il minimo scrupolo di coscienza. Padre e figlio andavano, ora, d’amore e d’accordo, e probabilmente così avrebbero continuato a fare per l’avvenire, a meno che a uno dei due non capitasse la disgrazia di ferire mortalmente l’altro.
Nel capitolo seguente narrerò qualche esempio di come quelle che noi chiamiamo sventure, avversità o malattie, vengono trattate dagli Erewhoniani.
Ma per il momento vediamo come curano gli atti da noi considerati criminali. Come ho già detto, benché tali atti non siano punibili a termini di legge, si ritiene tuttavia opportuno correggerne gli autori. Esiste perciò una classe di professionisti, esperti nella scienza dell’anima, che vengono chiamati raddrizzatori (la parola che più si avvicina al termine erewhoniano, il cui significato letterale è «chi raddrizza lo storto»).
Questi raddrizzatori esercitano la loro professione più o meno come fanno i medici in Inghilterra, e per ogni prestazione ricevono quasi clandestinamente un compenso. Il cliente non ha segreti per loro, e si sottopone alle loro cure con la stessa docilità con cui noi ci sottoponiamo alle cure dei medici, cioè, nel complesso, in modo abbastanza soddisfacente, perché sa che è suo interesse guarire quanto prima possibile, anche se ciò gli costerà molte pene, e che non dovrà temere il disprezzo del mondo che, invece, colpisce chi non sta bene di salute.
Il fatto che non siano esposti al disprezzo non significa che chi commette, ad esempio, una frode, non debba avere qualche noia nei suoi rapporti sociali. Gli amici lo evitano perché la sua compagnia è meno gradevole, proprio come noi evitiamo la gente senza soldi o i malati.
Chi ha un minimo di rispetto per se stesso non stringe mai un rapporto di amicizia alla pari con chi ha meno fortuna di lui per nascita, salute, denaro, bellezza, e così via. Non solo è naturale, ma addirittura auspicabile, per qualsiasi tipo di società umana o animale, che chi ha fortuna provi ripugnanza e persino disgusto per gli infelici, o comunque per le vittime di sciagure eccezionali e particolarmente gravi.
Il fatto quindi che gli Erewhoniani non considerino una colpa gli atti criminali, come fanno invece con le malattie, non impedisce ai più egoisti di sfuggire un amico che, ad esempio, abbia svaligiato una banca, finché non si sia completamente ristabilito. Impedisce però a tutti di credere di poter trattare i criminali con quell’aria di sdegnosa superiorità che pare voglia dire: «Io, al tuo posto, sarei molto meglio», - tono considerato, al contrario, più che naturale con i malati. Ecco perché, mentre adoperano ogni trucco, ogni possibile astuzia e ipocrisia, per celare le malattie fisiche, non hanno segreti riguardo alle più gravi malattie morali che però, per esser giusti, li colpiscono abbastanza di rado.
Certo vi sono, per così dire, molti malati immaginari che si coprono di ridicolo credendosi disonesti, mentre in realtà sono persone abbastanza per bene. Comunque, queste sono eccezioni; nell’insieme, riguardo alla loro salute morale, mostrano la stessa franchezza o lo stesso pudore che noi mostriamo riguardo alla nostra salute fisica.
Ecco perché le frasi di saluto da noi usate comunemente, quali: «Come stai?» e simili sono per loro segno di pessima educazione; negli ambienti più raffinati, poi, non si tollerano nemmeno i complimenti banali, come il dire a qualcuno che ha una buona cera.
Incontrandosi si dicono: «Spero che stamani tu sia buono», oppure «spero ti sia rimesso dal cattivo umore che ti affliggeva quando ti ho visto l’ultima volta»; e se l’altro non è affatto buono, o è ancora di malumore, lo dice subito, e viene debitamente compatito. In effetti i raddrizzatori sono arrivati a catalogare con un nome specifico (tratto dal linguaggio ipotetico insegnato nei Collegi dell’Irragionevolezza) tutte le forme conosciute di malattia mentale, e a classificarle secondo un sistema di loro invenzione che, benché per me incomprensibile, sembra funzioni benissimo. Infatti, quando un cliente espone loro il suo caso, sanno subito farne la diagnosi, snocciolando una serie di paroloni per dimostrare come lo abbiano sviscerato fino in fondo.
Il lettore può facilmente immaginare come la gente cerchi di sfuggire alle leggi sulle malattie usando tutti i trucchi comunemente ammessi, trucchi che non ingannano nessuno, ma che tutti devono fingere di non capire, per non comportarsi da villani.
Un paio di giorni dopo il mio arrivo dai Nosnibor, ad esempio, una delle tante visitatrici si scusò perché il marito aveva mandato il suo biglietto da visita invece di venirmi a trovare; ma, disse, quella mattina passando per il mercato s’era appropriato di un paio di calzini. Mi avevano già raccomandato di non meravigliarmi mai di nulla. Mi limitai quindi a dire che mi dispiaceva tanto, e che, benché mi trovassi da così poco tempo nella capitale, ero già sfuggito a stento alla tentazione di rubare una spazzola per vestiti. Ma anche se fino a quel momento avevo potuto resistere, temevo proprio che, se mi fosse capitato sotto gli occhi qualche oggetto interessante, che non pesasse troppo e non scottasse, avrei dovuto affidarmi alle cure di un raddrizzatore.
Appena la visitatrice uscì, la signora Nosnibor, che era stata tutt’orecchi a sentire la nostra conversazione, si felicitò con me. Secondo l’etichetta erewhoniana, disse, non avrei potuto mostrarmi più cortese. Mi spiegò come la frase «rubare un paio di calzini», o, per dirla in forma più colloquiale, «avere i calzini», venisse usata comunemente per indicare che la persona di cui si stava parlando era un po’ indisposta.
Ciò nonostante sanno apprezzare vivamente il piacere di quello che essi chiamano «star bene».
Ammirano la salute mentale, stimano chi la possiede, e fanno tutto il possibile per conquistarla, pur senza trascurare gli altri loro doveri. Rifuggono dai matrimoni con persone appartenenti a famiglie ritenute poco sane, e appena commettono azioni veramente riprovevoli mandano subito a chiamare il raddrizzatore.
Spesso lo consultano anche solo perché hanno paura di commetterne. E benché i rimedi da lui prescritti siano talvolta molto penosi - può ordinare la più completa segregazione per settimane intere, e in certi casi le più crudeli torture fisiche - non ho mai sentito dire che un erewhoniano di buon senso si sia rifiutato di seguire i suoi consigli, proprio come un inglese di buon senso non si rifiuta mai di sottoporsi anche alla più grave operazione chirurgica, quando il suo medico la ritiene necessaria.
In Inghilterra non nascondiamo mai al medico le nostre malattie per la paura di soffrire.
Sopportiamo senza ribellarci tutte le sofferenze che egli ci infligge perché non dobbiamo vergognarci di essere malati, e perché sappiamo che il medico fa tutto il possibile per guarirci, e può giudicare il nostro caso meglio di noi. Ma se dovessimo subire le pene che subiscono gli Erewhoniani appena la loro salute vacilla, nasconderemmo tutti i nostri malanni. Faremmo come con i mali morali e spirituali. Useremmo le arti più consumate per fingerci sani, finché la verità non venisse a galla; e la pena di una sola frustata ci parrebbe più odiosa dell’amputazione di un arto fatta con umana carità, per evitarci la cancrena, da un medico che sa di non trovarsi nel nostro stesso stato solo perché ha la fortuna di esser sano.
Ecco perché gli Erewhoniani sono pronti a farsi fustigare una volta alla settimana, o a mangiare solo pane e acqua per qualche mese, quando il raddrizzatore lo prescrive.
Nemmeno il mio ospite, che aveva truffato di tutti i suoi beni una vedova fiduciosa, soffriva veramente più di quanto sia pronto a soffrire un malato che si sottoponga alle cure di un medico in Inghilterra. Eppure doveva aver passato dei brutti momenti.
Bastava sentire i suoi gemiti per capire che gli venivano inflitte torture raffinate, che egli, tuttavia, non cercò mai di evitare. Era convinto che gli facessero bene; e probabilmente non aveva torto.
Non credo che egli ricomincerà ad appropriarsi dei soldi altrui in modo illecito. O forse ricomincerà, ma non tanto presto. >

Il lavoro di Erostrato
Gran parte di questo lo avevo intuito già in carcere, e durante il viaggio; ma mi pareva troppo strano e incredibile, e vivevo nel timore che la mia incapacità di vedere le cose come le vedeva la gente che mi circondava potesse indurmi in qualche grosso sbaglio. Ma, passata qualche settimana in casa Nosnibor, cominciai a capire meglio le loro idee, soprattutto perché conoscevo ormai tutti i particolari della malattia del mio ospite, il quale me la descriveva spesso diffusamente.
Era stato per molti anni agente di cambio alla Borsa della capitale, accumulando un patrimonio enorme senza mai oltrepassare i limiti di quanto, secondo loro, era lecito, o almeno tollerato, nel mondo degli affari. Ma con l’andar del tempo aveva cominciato ad assalirlo spesso la voglia di arricchirsi in modo illecito. Difatti, due o tre volte, maneggiando certe somme, si era comportato in modo preoccupante. Purtroppo aveva dato poca importanza a quei sintomi e trascurato il suo malessere finché non gli si era presentata l’occasione di effettuare una truffa in grande stile. Mi descrisse le circostanze in cui si era trovato, ed effettivamente non potevano essere peggiori, ma è inutile perder tempo in dettagli. Il fatto è che Nosnibor ne approfittò; e si rese conto, ma troppo tardi, di star veramente male. In realtà, si era trascurato troppo a lungo.
Si fece subito accompagnare a casa, con la massima delicatezza avvertì la moglie e le figlie, poi mandò a chiamare uno dei più celebri raddrizzatori del regno perché tenesse un consulto con il raddrizzatore di famiglia: il caso era infatti molto serio. Appena arrivato il raddrizzatore, Nosnibor gli raccontò l’accaduto, dicendogli di temere che il suo senso morale potesse restarne menomato per sempre.
L’eminente personaggio lo rassicurò con brevi parole di conforto, dopodiché si accinse a fare una diagnosi più approfondita del suo caso. Volle sapere se i suoi genitori erano moralmente sani, e Nosnibor rispose che non avevano mai avuto nulla di molto grave; ma il nonno materno, a cui pareva che, fisicamente, lui somigliasse abbastanza, era stato un truffatore consumato, morto all’ospedale, mentre un fratello del padre, dopo aver condotto per anni una vita indegna, era riuscito a guarire per le cure di un certo filosofo di una nuova scuola che, a quanto potei capire, stava alla vecchia un po’ come l’omeopatia sta all’allopatia. Al sentir ciò il raddrizzatore scosse il capo, ribattendo, con una risata, che in tal caso la guarigione era tutta merito della natura, e non delle cure. Gli fece qualche altra domanda, poi scrisse una ricetta e se ne andò.
Vidi la ricetta. Ordinava il versamento allo Stato di una ammenda pari al doppio della somma sottratta, una dieta di pane e latte per sei mesi, e, per il periodo di un anno, una buona fustigazione al mese. Constatai con sorpresa che alla povera donna vittima della truffa non spettava nemmeno un soldo di risarcimento. Chiesi come mai, e mi risposero che, al contrario, la vedova avrebbe dovuto essere processata davanti al Tribunale della Fiducia Mal Riposta, ma era riuscita a salvarsi morendo poco dopo avere scoperto di essere stata truffata.
Quanto al signor Nosnibor, il giorno del mio arrivo aveva ricevuto la sua undicesima fustigazione. Lo vidi più tardi, quello stesso pomeriggio, e gli doleva ancora; ma non poteva sottrarsi alle prescrizioni del raddrizzatore, perché le leggi sanitarie erewhoniane sono severissime, e se il raddrizzatore vede che la cura non è eseguita a puntino, il paziente viene ricoverato all’ospedale, come i poveri, e si trova molto peggio. Questa almeno è la legge, ma non c’è mai bisogno di applicarla.
Un giorno assistei a un colloquio fra il signor Nosnibor e il raddrizzatore di famiglia, che aveva il compito di sorvegliare l’andamento e i risultati della cura. Fui colpito al vedere con quale delicatezza costui evitasse la benché minima allusione alla salute fisica del suo paziente, nonostante il fatto che gli occhi gialli del mio ospite tradissero in lui una certa tendenza ai travasi di bile. Ma notarlo sarebbe stata una grave mancanza di tatto professionale. Mi è stato detto, però, che talvolta, quando pensa che ciò possa aiutarlo nella diagnosi, il raddrizzatore ritiene opportuno chiedere se il paziente soffra di qualche disturbetto; ma in genere gli nascondono sempre la verità, o gli rispondono in modo evasivo, costringendolo a trarre da sé le sue conclusioni, come meglio può. Alcune persone di buon senso sostengono, pare, che in via strettamente confidenziale bisognerebbe confessare al raddrizzatore ogni disturbo fisico che possa avere una certa influenza sul caso in questione; ma la gente è istintivamente restia a farlo, perché non ama abbassarsi agli occhi del raddrizzatore, la cui ignoranza in fatto di medicina è, del resto, senza limiti.
Mi hanno raccontato, ad esempio, che una signora osò confessare al raddrizzatore che il terribile attacco di cattiveria e gli stravaganti capricci di cui soffriva erano probabilmente derivati da un’indisposizione. «Per favore, cerchi di controllarsi;» le rispose lui, in tono gentile ma fermo «noi non possiamo far nulla per il corpo dei nostri clienti. Non sono cose di nostra competenza, e la prego di non toccare più l’argomento». La signora scoppiò in lacrime, e promise sinceramente che per l’avvenire sarebbe stata sempre bene.
Ma torniamo al signor Nosnibor. Nel pomeriggio vennero molti visitatori a chiedere come aveva sopportato la fustigazione. Era stata molto dura, ma l’affettuoso interesse dimostratogli da tutti gli amici gli faceva immensamente piacere. Anzi, mi disse, con le attenzioni di cui era stato colmato durante la convalescenza quasi quasi gli veniva la voglia di sbagliare di nuovo. Diceva tanto per dire, naturalmente.
Per tutto il resto del mio soggiorno nel paese, il signor Nosnibor non cessò mai di occuparsi dei suoi affari, e di accrescere notevolmente i suoi beni già tutt’altro che modesti; ma non mi risulta che abbia avuto nessun’altra ricaduta, o guadagnato soldi con mezzi meno che onorevoli. C’era tuttavia motivo di credere, come appresi in seguito in via confidenziale, che la sua salute avesse sofferto gravemente delle cure del raddrizzatore, ma i suoi amici non vollero indagare troppo sulla cosa; e quando egli riprese in mano i suoi affari, tutti, di comune accordo, preferirono chiudere un occhio sui malesseri che l’affliggevano, e che non potevano esser considerati un vero crimine in un uomo tanto duramente provato. Per gli Erewhoniani, infatti, i disturbi fisici sono tanto più perdonabili quanto più sono causati da motivi estranei alla costituzione del malato. Ad esempio, se un uomo si rovina la salute perché indulge in maniera eccessiva alla buona tavola o al bere, considerano la sua infermità quasi parte del male mentale che l’ha provocata, e le dànno poca importanza; ma sono senza pietà quando si tratta di malattie come le febbri, il catarro, o la tubercolosi, malattie di cui secondo noi l’individuo non ha alcuna colpa. Più indulgenza mostrano verso le malattie dell’infanzia, come il morbillo, che secondo loro è una specie di sfogo di gioventù; e le ritengono peccatucci perdonabili purché non siano troppo gravi, e vengano in seguito espiate con una completa guarigione.
La professione di raddrizzatore, inutile dirlo, richiede una preparazione lunga e speciale. Per poter curare un male morale bisogna ovviamente conoscerne tutte le manifestazioni. Chi studia per diventare raddrizzatore ha quindi l’obbligo, in determinate stagioni, di dedicarsi volta per volta allo studio di ogni vizio, come a un dovere religioso. Queste stagioni vengono chiamate «digiuni», e lo studente deve continuare a praticarli finché non si accorge di essere ormai in grado di dominare nel proprio animo tutti i vizi più comuni, e quindi di dar consigli agli altri in base ai risultati della propria esperienza personale.
Chi, invece di diventare raddrizzatore generico, vuole avere una specializzazione, si dedica particolarmente a quel ramo del vizio in cui eserciterà la sua professione. Alcuni continuano a studiare tutta la vita, e certi filantropi si immolano sull’altare dell’ubriachezza, della ghiottoneria, o di qualche altro vizio che costituisce la loro specialità. In genere, però, queste escursioni tecniche nei vari settori del vizio non hanno gravi conseguenze per gli studiosi.
Gli Erewhoniani ritengono infatti che la virtù senza macchia sia una cosa di cui non si deve abusare. Mi fu mostrata più di una famiglia in cui le virtù reali o immaginarie dei genitori ricadevano sui figli fino alla terza e quarta generazione. Onestamente, secondo i raddrizzatori, ciò che al massimo si può dire della virtù è che fra vizio e virtù vai sempre meglio la virtù, e che nell’insieme vi sono più elementi in suo favore che contro di essa. Ma attenzione, dicono, perché c’è molta falsa virtù in giro, e ci possiamo lasciar trarre in inganno senza accorgercene. Gli uomini migliori, sostengono, sono quelli che non spiccano né per i vizi né per le virtù. Raccontai loro la storia dei due apprendisti di Hogarth, il fannullone e lo zelante; ma non mi parve che lo zelante riscotesse molto la loro simpatia.

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